Politica

Perchè la Sinistra ha bisogno di un nuovo partito

Gianni Marchetto ex operaio Fiat

di Gianni Marchetto

Un recente intervento di Massimo D’Alema (Democrazia e partiti nell’epoca della disintermediazione) mi é apparso suggestivo e “provocatorio”. Per il sottoscritto è suggestivo perché mi fa ritornare giovane, al 1969, quando operaio e “rivoluzionario di professione” (semplice funzionario del PCI della Zona Ovest di Collegno!) ero messo a confronto con un leninista quale Luciano Manzi (ex partigiano, ex licenziato FIAT e responsabile del PCI della Zona Ovest, ammiratore di Pietro Secchia, del quale mi fece regalo del suo libro “La resistenza tradita”).

Epperò, essendo io operaio FIAT, mal sopportavo la “disciplina” del partito (mi pareva un po’ quella che avevo conosciuto in FIAT). Accetto la sua provocazione e allora racconto un’altra storia: in principio era Venezia con i suoi mercanti e ancor di più con i suoi cantieri che facevano le navi per tutte le flotte dell’occidente e per il vicino oriente (perfino per i saraceni, suoi nemici). Ne facevano talmente tante che all’Arsenale avevano una sorta di linea di montaggio! Era il 1300 o giù di lì.

Nella stessa epoca Milano con i suoi mercanti e gli artigiani, Genova che commerciava alla pari di Venezia con tutto il mondo, ovvero Firenze che gareggiava con i suoi artigiani e ancor di più con i suoi banchieri che prestavano i soldi a tutte le monarchie di Europa. Tutte e quattro queste città erano talmente indaffarate a fare degli affari che l’esercito manco lo avevano. Assoldavano di volta in volta dei soldati di ventura, i quali una volta terminata qualche guerra si convertivano ai commerci e all’artigianato: cosi’ nasce la prima borghesia in Europa. Leggere al proposito “Storia degli Italiani” di G. Procacci (Ed. Riuniti).

È interessante seguire le orme del progresso di questa nascente borghesia che di li a poco sposta il suo baricentro nelle “Fiandre” (segnando così la fine del predomino di Venezia) in quanto trova degli artigiani che inventano un timone che assieme ad un uso diverso delle vele triangolari permette alle navi di andare controvento. Dando cosi’ la possibilita’ di andare nelle “Indie occidentali” a Cristoforo Colombo e dare inizio alla prima mondializzazione. Per non dire che il cuore successivo si è spostato poi in Inghilterra con l’invenzione dell’acciaio per le ferrovie, poi negli USA (con il Taylorismo e il Fordismo) e adesso sta nella Silicon Valley.

Tempi di maturazione

Ci vollero 3 secoli. Tanto il tempo di maturazione di questa nuova classe, per prendere coscienza e consapevolezza della inutilità delle classi allora al potere: la nobilta’, il clero e la Proprieta’ Fondiaria. Era il 1789 in Francia e finì con il taglio delle teste di tutti costoro! Ma come, dicevano tra loro (i borghesi): siamo noi che facciamo girare la “baracca”, noi che facciamo scoperte e invenzioni, noi che andiamo in giro per il mondo a fare affari, che dobbiamo imparare le lingue e guarda un po’ te, questi qua si fanno la bella vita e non pagano le tasse.

Riporto le cose scritte nel libro di A. Minucci (“La crisi generale tra economia e politica”, Ed. Voland Srl) nel capitolo V° che parla del “Nodo della continuità”.

Mi ha colpito non trovare niente o quasi circa lo sviluppo delle rivoluzioni “socialiste” nel 20° secolo: cosa mai esisteva in quelle società che fosse in embrione il “socialismo” che poi si sarebbe instaurato? C’era in Russia? C’era in Cina? C’era a Cuba? Erano completamente assenti! Anzi (ed è di questi tempi) il Partito Comunista Cinese è attualmente a capo di una modernizzazione a carattere capitalista con annesso sfruttamento dei lavoratori, di alienazione di larghe masse e tutto l’armamentario tipico della fase di costruzione del capitalismo.

Del tutto opposta la storia della borghesia. Manca un’autocritica ovvero sul fatto che l’egemonia viene prima del potere. La borghesia ha prodotto un’egemonia e precisamente questa è rappresentata dai “modelli d’uso” quali, buon ultimo, è lo Smartphone che ciascuno di noi ha in tasca. Ha lasciato ad altri la produzione dei suoi modelli teorici. Prova ne è la produzione della “Grande Encyclopédie” di Diderot e D’Alembert che venne prodotta prima (inizia nel 1751) della Rivoluzione Francese e contiene tutte le scoperte e invenzioni fino allora fatte.

La rivoluzione dei “borghesi”

La borghesia ha obbedito (e obbedisce) a questo assunto, noi abbiamo fatto il contrario: prima il potere, ad est con i fucili, a ovest con il voto; in pratica non abbiamo imparato niente dal meglio della rivoluzione dei “borghesi”. Risultato: il “nostro” potere si è trasformato in coercizione condito da un gran numero di spie (vedi la Stasi in DDR e gli spioni di Ceausescu in Romania per non dire il sistema di delazione nell’URSS all’epoca di Stalin e seguenti). Oppure vedi quanto c’é di paternalismo nelle migliori socialdemocrazie nordiche.

Mentre l’egemonia (e il potere) della borghesia, sia essa globalizzata che sovranista, è ancora a galla e la fa da padrona. Certo è vero che in Italia con il voto il PCI (assieme al PSI) ha “civilizzato” l’Italia, fino alla stagione delle “giunte rosse” (a Torino con Diego Novelli). Epperò assorbendo i migliori quadri nelle amministrazioni, un poco alla volta, la sinistra nel nostro paese (specie a partire dalla fine degli anni ’80, con la Bolognina di Occhetto) si è pressoché estinta. Quasi tutti i presidii che aveva nella società civile sono stati progressivamente abbandonati per il privilegio del “governo” centrale, ed è prevalsa la “società incivile” che ci ha dato l’attuale personale politico: prima gli affaristi di Berlusconi, i razzisti della Lega Nord di Bossi, poi gli incolti del M5S, infine la Lega di Salvini (affaristi e razzisti), questo sia a livello centrale che a livello comunale. Per non dire della pessima legge sui Sindaci voluta dall’allora On. Segni (personalmente ho votato NO al referendum a cui venimmo chiamati).

Massimo D’Alema è il classico dirigente (a carattere intellettuale) di origine “umanista”. Lui come altri, numerosissimi nel PCI (nel sindacato un po’ meno), avevano il compito di “redimere” coloro i quali li andavano ad ascoltare. Non che questo fosse un peccato, anzi, il sottoscritto ne trasse profitto, però fino ad un certo punto. Cosicché io, come migliaia di altri come me, chiamato a fare il Delegato per buona parte degli anni ’70, entrai in contatto con altri “intellettuali e tecnici” delle aziende (a partire dalla FIAT). Nel continuo confronto con questi e le continue “figure di merda” che facevo, mi sono dato da fare per scoprire in proprio (e attraverso una pratica del furto) le necessarie argomentazioni per controbattere quelle del padrone e dei suoi tecnici.

Tra le cose rubate: la differenza tra la ghisa grigia e la ghisa sferoidale, ovvero cos’era il 133 di rendimento. Cose per le quali i dirigenti della Federazione del PCI di Torino se la cavavano dicendomi che loro erano per “lo sviluppo delle forze produttive” (gli venisse il mal di pancia!).

Oggi le argomentazioni di D’Alema sono tutte fiondate sul cielo della politica e quasi niente sui processi reali specie quelli della crisi. Nel 1973 al convegno dell’Istituto Gramsci a Torino su “Scienza e organizzazione del lavoro” Ivar Oddone scandalizzava la presidenza del convegno con il ragionamento che portava a conforto della sua tesi: “con la nascita dei Delegati di Gruppo Omogeneo, la contrattazione articolata e tutte le forme di controllo e di potere che ciò si tira dietro, la coscienza di classe non è più solo appannaggio del partito politico che la trasferisce alla classe, ma si costruisce anche attraverso altre strade e altri confronti con altri “intellettuali”, diversi dagli “organici” al partito”.

L’”ipotesi dell’orda”

Un ragionamento di Ivar Oddone sulla “rabble iphotesys” (l’ipotesi dell’orda) nel senso che il meglio della sociologia e della psicologia di marca americana sosteneva che l’idea dell’operaio inteso come orda bruta, o gorilla, era del tutto affine alla cultura del padronato che sosteneva che i gorilla (gli operai) vanno ammaestrati per la produzione – di contro Ivar Oddone faceva notare che per una certa sinistra italiana (in maniera trasversale), fino ad arrivare ai gruppi extraparlamentari, gli operai erano non gorilla da ammaestrare per la produzione ma da redimere per la rivoluzione (quale rivoluzione: la loro evidentemente, dei redentori! E io? Sempre gorilla rimanevo..).

Mi pare che in epoca di “algoritmi” e di istruzioni date con “ologrammi” tutto ciò sia abbastanza evidente!

Un modesto suggerimento: rifare, da sinistra, lo stesso lavoro di Diderot e D’Alembert con la loro Encyclopédie. Si tratterebbe di un recupero ragionato di tutto ciò che nel bene e nel male il movimento dei lavoratori ha prodotto nel nostro paese (e in Europa) e da quel dì (dal 1850 o giù di lì) in termini di scoperte, di conquiste, di leggi (specie quelle ispirate dalle lotte), memorizzarle e operare un trasferimento ai lavoratori, ai giovani con l’obiettivo di costruire una coscienza di comunitá. E, attraverso questa, un’opera di pedagogia sociale che permetta alle persone l’uscita dall’ignoranza crassa che attualmente attanaglia una fetta di cittadini molto ampia. Questo ha bisogno di un “corpo a corpo” molto sostenuto. Per questo servirebbe un “nuovo partito”.

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Un pensiero su “Perchè la Sinistra ha bisogno di un nuovo partito

  • Gianni Marchetto

    Grazie per la pubblicazione mio caro D’Ottavio

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