Cronache

Dopo l’assoluzione di Cappato e Welby indispensabile una legge

di Chiara Barison

Marco Cappato e Mina Welby sono stati assolti con formula piena dalla Corte d’Assise di Massa: il fatto non costituisce reato. Erano entrambi imputati per aver accompagnato in una clinica elvetica Davide Trentini, affetto da sclerosi multipla, che dopo anni di sofferenze aveva chiesto il loro aiuto per mettere fine dignitosamente alla sua vita.

In un Paese che fa fatica a legiferare per permettere il pieno esercizio dell’autodeterminazione dell’individuo, la disobbedienza civile sembra l’unica soluzione.

Nonostante la presenza dell’art. 32, comma II della Costituzione che sancisce il diritto all’autodeterminazione del malato, la pratica dell’eutanasia in Italia costituisce reato ai sensi degli artt. 579 (omicidio del consenziente) o 580 (istigazione o aiuto al suicidio) del codice penale.

Letteralmente dal greco “buona morte”, l’eutanasia – dove consentita – può essere di due tipologie: nella prima, definita attiva, il medico esegue personalmente un’iniezione endovenosa, a differenza della seconda, detta passiva, in cui il medico si limita a sospendere le cure della persona malata o menomata in modo permanente.

Discorso parzialmente diverso per il suicidio medicalmente assistito, la cui introduzione nel nostro ordinamento si deve alla sentenza n. 242 del 2019 della Corte Costituzionale. Non è la prima volta che la Corte interviene per colmare un vuoto normativo. Lo stesso aveva fatto per il caso Englaro, pronunciandosi sul trattamento sanitario di persone in stato vegetativo irreversibile.

I giudici della Consulta hanno stabilito che l’aiuto al suicidio possa essere considerato legittimo se la persona direttamente interessata, tenuta in vita grazie a trattamenti di sostegno vitali, sia capace di intendere e di volere nel chiedere di mettere fine a sofferenze che reputa intollerabili. Questa motivazione è la diretta conseguenza della possibilità legittima del paziente di rifiutare le cure, comprese nutrizione e alimentazione forzata, dopo essere stato adeguatamente informato da parte del personale sanitario.

Quanto detto finora non deve essere confuso con la sedazione palliativa continua profonda, attraverso la quale il paziente viene addormentato e continua a respirare autonomamente. Non porta alla morte, avendo l’unico scopo di evitare la percezione del dolore. Il decesso può intervenire naturalmente nel corso del sonno indotto dalla continua infusione di farmaci.

La piccola grande conquista in tema di fine vita è costituita dalla legge sul testamento biologico entrata in vigore il 31 gennaio 2018. È stato così introdotto il concetto di disposizioni anticipate di trattamento (DAT) attraverso le quali tutti i cittadini possono fornire indicazioni sulle cure alle quali vorrebbero o meno essere sottoposti in caso di futura perdita di coscienza. È possibile esprimere le proprie volontà con una scrittura privata, un atto pubblico o con una registrazione video.

Urge un intervento legislativo che tracci nei minimi dettagli la materia: la Consulta non detiene il potere legislativo e quanto affermato nella sentenza del 2019 non può sostituirsi alle norme già presenti nell’ordinamento.

Quest’incertezza ha portato molti italiani a scegliere la Svizzera per esercitare il “diritto di morire”. Spostarsi oltralpe resta però una scelta elitaria: le cliniche che effettuano questo tipo di servizio hanno un tariffario che prevede circa 10.000 euro a trattamento.

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