Cronache

Cosa ti resta dopo aver visto Auschwitz?

di Carlo Cumino

Ho visitato Auschwitz una sola volta e da allora non riesco a dimenticare.

Era la metà di marzo del 2017 quando ho avuto l’occasione di visitare Auschwitz, durante un periodo di stage in Polonia insieme ad altri ragazzi di Torino.

Tutte le visite di quel posto cominciano sempre da quello che viene comunemente chiamato “Campo 1”, a cui si accede attraverso il cancello con quella famosa e terribile frase (Arbei match frei “Il lavoro rende liberi”) che inevitabilmente ti fa ripensare ai cancelli dell’Inferno evocati da Primo Levi nel suo libro.

Il Campo 1 era pensato anche come una zona di detenzione, quindi consiste in blocchi di baracche fatte di mattoni (i Block) che un tempo ospitavano i prigionieri, mentre oggi le sezioni museali che raccontano la storia di Auschwitz e dei suoi prigionieri. I Block non espongono solo pannelli, documenti dell’epoca o foto, ma ti fanno vedere con gli occhi l’impatto di quella macchina di morte.

Ci è stato raccontato tante volte che i campi di concentramento privavano le persone della loro identità, prima dell’umanità e della vita, difetti nelle baracche del Campo 1 si possono vedere ammucchiate le valige, le scarpe, gli occhiali e persino i capelli delle persone deportate posti dietro a teche di vetro.

Sono la prima cosa che vedi nelle baracche del Campo 1. L’ultima sono le stanze con le foto dei prigionieri, uno spettacolo che non ebbi la forza di guardare al punto che chiesi alla tutor (una signora di circa 60 anni) se potesse tenermi la mano mentre attraversavo quelle sale. Lei fu comprensiva ed accettò.

Non ci sono più forni crematori ad Auschwitz. Non gli originali almeno, ma nei primi anni si è potuto ricostruire quello vicino al campo grazie ai vecchi prigionieri.

Dopo aver visitato il Campo 1, siamo passati al terzo e al più disumano dei tre campi: Birkenau!

Credo che nessuno sia preparato per vedere Birkenau. A prima vista il posto non dice tanto: una ferrovia che entra attraverso una porta in un campo d’erba con delle baracche di legno. Un luogo anche bello da vedere in una giornata di Sole. Ci vuole tempo per realizzare cosa volesse dire percorrere con gli zoccoli quel prato (specie in una giornata di ferro) rispetto al ciottolato del Campo 1.

La prima cosa che fai entrato a lì dentro è percorrere i binari fino a dove hanno lasciato uno dei vagoni con cui giungevano i deportati. Vedere dal vivo quel vagoncino è come ti dà la stessa sensazione dei mucchi di capelli e di occhiali al Campo 1!

Poco lontano dal vagone vi è il monumento che sorge dove una volta vi erano i forni crematori di Birkenau, dedicato a tutte le vittime del campo (volto a ricordare tutti gli adulti e bambini di diverse nazionalità che hanno trovato la morte in quel diabolico complesso), ma nulla ti prepara a vedere le baracche di legno! Luoghi così cupi e senza luce, salvo forse per quei disegni che gli adulti facevano per rincuorare i loro bambini e tenere viva in loro la speranza!

Oggi, dopo quasi tre anni, è impossibile per me vedere una foto o una ripresa della scritta del Campo 1 o della porta di Birkenau senza pensare a quel vagone, a quel lavatoio a Birkenau fatto più per animali che per persone, a quelle valige, a quel mare di occhiali, a quello di scarpe e soprattutto a quella montagna capelli!

Non riesco a dimenticare quell’ammasso di identità e di umanità sottratte a forza, ed è giusto così!

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