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Alpignano contro la mafia: in Sicilia ricordando Impastato

di Rosanna Caraci

Un viaggio nella memoria e nella coscienza di un Paese che alza la testa, che combatte ferito nella sua dignità: uno scendere nel ventre dell’Italia che il giorno in cui ammazzarono il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa scrisse sui muri che nel momento dell’assassinio ad essere stata uccisa era la speranza degli onesti.

Un viaggio che preso per mano dalla potente semplicità di Peppino Impastato ha accompagnato  quaranta alpignanesi nei luoghi della vita del giornalista assassinato dalla criminalità organizzata quarant’anni fa ma anche lungo la scia di sangue mai dimenticata che lega gli agguati ai giudici Falcone e Borsellino e alle loro scorte a distanza l’uno di nemmeno due mesi uno dall’altro.

Il viaggio è stato organizzato dall’Associazione Calabresi di Alpignano e Caselette e finanziato grazie a una cena di raccolta fondi che si è svolta poche settimane fa. Alpignano già ha dimostrato sensibilità nei confronti di Peppino Impastato, uomo che non voleva essere eroe, come non lo volevano essere né Falcone e Borsellino: al giovane è stato intitolato l’atrio del Movicentro di Alpignano.

<La storia di Impastato, le sue emozioni, le sue paure e il suo coraggio sono stati condivisi coi ragazzi delle scuole nell’anniversario della sua scomparsa  dal fratello Giovanni in un appassionato incontro che si è svolto proprio ad Alpignano – ricorda Chiara Priante, giornalista che ha accompagnato il gruppo in Sicilia e che ha curato l’iniziativa – Sono ricordi, sensazioni, speranze che quando vengono ripensati nei luoghi in cui i fatti si sono svolti assumono per chiunque ma in particolare per i giovani un’importanza ancora più profonda>.

Il gruppo che tra l’8 e il 9 maggio è partito per la Sicilia, coordinato dal presidente dell’associazione Pasquale Lo Tufo, era di studenti delle scuole di Alpignano e del comprensivo di Caselette e di cittadini che hanno voluto mettersi in viaggio per capire, sentire, comprendere.

<Il primo giorno abbiamo visto l’albero di Falcone, visitato la Cassa della Memoria di Impastato, il luogo della strage di Capaci mentre il secondo ci siamo riuniti in un sit in nel casolare dove Peppino Impastato è stato assassinato; poi tutti insieme  in corteo da Terrasini fino a Cinisi, abbiamo partecipato alla marcia per la legalità: c’erano persone che per essere lì, dare il loro contributo di passione e di sfida silenziosa, sono arrivate da ogni parte di Italia.

<La mafia è una montagna di merda> diceva Impastato. La merda che è giusta fin negli ingranaggi della finanza e della politica, inquina e riempie di fetore le stanze del potere: eppure, l’errore più grande che l’Italia e l’opinione pubblica possono fare è pensare che “mafia” sia oggi “solo” questo. Che sia una cosa dei palazzi, perché non si uccide più. Nel 2008 venne pubblicato “Perché la mafia ha vinto” del professor Nicola Tranfaglia. A prima vista il titolo provocatorio appare l’amara constatazione di chi ha seguito, nell’ultimo trentennio, la lotta che le classi dirigenti italiane hanno condotto contro l’espansione del fenomeno mafioso nel Mezzogiorno e nell’Italia intera. C’è stata, in questo periodo, un’oscillazione tra accantonamento della questione mafiosa e di tanto in tanto una stretta repressiva. Ma non si è tenuto conto che la mafia non è un episodio di delinquenza bensì un fenomeno sociale ed economico che si può sconfiggere soltanto se matura una nuova mentalità collettiva e si risolvono i problemi strutturali delle regioni meridionali. Fino a quando si pensa che, con la pur necessaria repressione di polizia e della magistratura, si possa vincere la mafia, si corre il rischio, ormai evidente, che sia la mafia a vincere il confronto, consolidando ed allargando il proprio potere reale. Una nuova mentalità collettiva, che comprenda come la mafia sia ancora e soprattutto delinquenza, illegalità, sopruso e abuso strisciante, sopraffazione del più debole: non solo economia. La nuova mentalità collettiva che si ponga da schermo e da antidoto, che protegga sapendo guardare chi è più debole facendosene carico, difendendolo. <Al passaggio del corteo alcune scuole avevano le tapparelle chiuse – racconta Priante – ed è inconcepibile: noi avremmo lasciato correre i ragazzi in strada a partecipare, avremmo “aperto le porte” alla legalità. Gli studenti di una scuola di Catania che avrebbero voluto andare a ritirare il premio vinto per un concorso in memoria di Impastato non hanno avuto il permesso dal preside e così ci sono andati per i fatti loro, tagliando le lezioni. E’ la prova di quanto la paura, l’omertà siano ancora profondamente radicate>. Per fare la nostra parte è necessaria, conclude Claudia Priante <un grande senso di comunità: quella che noi alpignanesi siamo stati capaci a rendere forte, è quel senso di unità che può affermare quanto combattendo l’ingiustizia anche più piccola si contribuisca alla legalità, proprio rispondendo al bisogno di chi ha paura, di chi di fronte all’arroganza violenta si sente solo. Ciascuno può e deve fare la sua parte>

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