Rubrica di psicologia

FARE SPAZIO IN TEMPO DI GUERRA E PANDEMIA

A cura di Chiara Lovera, psicologa e psicoterapeuta

Ho letto un articolo scritto da una mia cara collega a proposito di come parlare della guerra ai bambini.

Rifletteva su come per poter trovare le parole abbia dovuto aspettare, un mese da quando è scoppiato il conflitto in Ucraina. E’ questo darsi tempo che mi ha colpito e mi ha permesso di iniziare a comporre la mia riflessione: avevo detto al Direttore de La Voce della Dora che avrei voluto scrivere un articolo sulla guerra, una riflessione su quale impatto un evento così catastrofico sulla soglia di casa potesse avere sulla nostra mente e sul nostro vissuto emotivo già messo alla prova da due anni di pandemia.

 Desideravo scrivere ma rimandavo.

E credo che il mio rimandare fosse il tentativo della mia mente di fare spazio a questo evento lontano ma non abbastanza per essere negato alla consapevolezza, non abbastanza da non farmi percepire un senso di minaccia: sono nata nel 1980, il disastro nucleare del 1986 è un evento che ho vissuto nel momento in cui accadeva, non un fatto raccontato come la prigionia in Russia durante la seconda guerra mondiale raccontata e vissuta dal padre di mio padre o la fame nelle campagne vissuta dalla madre di mia madre. Era un fatto lontano ma non abbastanza da essere allontanato e dimenticato del tutto.

 È un fatto che ha intessuto le paure più oscure dei bambini della mia generazione. 

Durante i primi giorni dopo lo scoppio del conflitto ricordo che ovunque non si parlava d’altro: al bar, per la strada, sui social, tra i bambini a scuola. Il bisogno di condividere dava voce ad un profondo senso di impotenza, era l’ammissione dell’umana e comune condizione di fragilità.

Non siamo altro che formichine che si agitano in balia di eventi che non possiamo controllare.

 Qualcosa di simile, questa sensazione di profondo smarrimento e impotenza e ciò che molti di noi hanno sperimentato con il dilagare della pandemia.

Poi anche l’emergenza sanitaria è diventata un’esperienza stressante e traumatica ma integrata nella nostra quotidianità.

Le abbiamo fatto spazio. Nella nostra mente.

Fare spazio, accogliere un evento doloroso o traumatico è offrire a sé stessi la possibilità di non essere travolti da quell’evento stesso. Cavalcare un’onda invece di esserne sommersi, attraversare la sofferenza invece di negarla o di esserne sopraffatti.

Fare spazio significa mantenere un atteggiamento non reattivo ad una situazione ma darsi il tempo con pazienza e senza giudizio di ascoltare il proprio vissuto accogliendolo per offrire una risposta e non una reazione.

La solidarietà mostrata ai civili sfuggiti alla guerra attraverso le raccolte alimentari e medicinali è un modo, per esempio, di mantenere un atteggiamento attivo e arginare quel senso profondo di sgomento dinnanzi ad una realtà difficile da concepire, figuriamoci da controllare.

Come manifestare ed esprimere pacificamente il proprio dissenso verso la guerra.

Fare spazio significa anche portare la pace dentro di noi, coltivarla come atteggiamento verso noi stessi e gli altri: cercare di assumere uno sguardo benevolo, gentile.

Non è una questione di buonismo ma una rivoluzione nel nostro modo di stare nel mondo.

La compassione è accogliere la propria e altrui sofferenza e con fiducia prendersene cura.

Se riflettiamo, per esempio, sulle parole che utilizziamo per descrivere ciò che facciamo ogni giorno nella nostra quotidianità ci accorgeremo di quante espressioni utilizziamo che rimandano alla guerra (combatto ogni giorno, per esempio) o implicano uno sforzo, una fatica che subiamo e non un impegno, una responsabilità che decidiamo di assumere.

Le parole sono importanti perché costruiscono la nostra realtà.

 Come spesso si dice: non è ciò che accade ma come lo affrontiamo che fa la differenza.  La differenza è in quel fare spazio, nel prendersi il tempo necessario per sentirsi, pensare ed infine agire.

Qualcuno obietterà che la differenza non possiamo farla da soli. Qualcuno diceva che l’oceano è fatto di tante gocce e che l’oceano non sarebbe stato tale senza ognuna di quelle gocce.

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